venerdì 14 dicembre 2012

Il tempo non esiste (impiego di neuroni previsto: 1,5)

Allora io, una giustificazione alla mia affermazione costante "IL TEMPO NON ESISTE" devo pur trovarla. Non so, a me sembra così naturale concepire il fatto che non c'è, non esiste in natura. E dunque non esiste la fretta, non esiste il ritardo, non esiste l'anticipo. Non esiste "se solo fossi arrivato un momento prima....", non esiste. Punto.

"Il tempo ti fotte sempre", dice A. in una delle nostre conversazioni insensate da pausa-studio. Il tempo ti fotte e tu vuoi esser fottuto/a, penso io senza dirlo. E non mi riferisco nello specifico ad A., è condizione insita nell'essere umano. Il tempo ti frega così astutamente che non fai in tempo a dire oh cacchio che già s'è fregato tutto: e allora succede che ti ritrovi, ad un punto della vita, senza niente. Niente che valga la pena di esser vissuto, niente per cui sia necessario provarci. Ti persuade, il tempo, a credere che di niente ti importi niente. Ecco, io l'ho vissuto questo. Ma mai totalmente, ché spesso penso che come ragione di vita sia sufficiente il sapore della liquirizia. (E questo è sempre stato il mio problema principale, dare alle cose sempre un valore, un'importanza, quantomeno per l'emozione che queste cose ti danno. Ecco. Venticinque anni e molta infantilità, quando mi accorgo che sono tutta un capriccio, che quello che voglio deve esser mio a tutti i costi, senza se e senza ma, mio, punto. Spesso senza dare nulla in cambio, se non un valore, astratto, ideale, ma pur sempre un valore). Il tempo ti fotte e tu vuoi esser fottuto. Sì, lo fai apposta, un po' perché scappi, un po' perché sei tristemente rassegnato. Il tempo ti frega quando ti accorgi improvvisamente di essere in ritardo con gli studi, con tutte le intenzioni di farti sentire incompetente, pigro, demotivato. E ce la fa, eh. Ma per fortuna a volte vince l'autostima. Poi succede che in un giorno qualunque, per un momento solo, breve e unico, il tempo sembra fermarsi. No, non sto parlando di morte o coma, o situazioni tragiche. Anzi, forse sì. Anche perché nella categoria "stop al tempo", generalmente al secondo posto, dopo la signora morte, c'è il momento in cui incontri la persona dei tuoi sogni: un'altra tragedia, la morte di te stesso. Ecco. Dico io, piantiamola. Non è vero che si ferma il tempo, sei solo tu che desideri che questo accada. Non è lui/lei la persona perfetta per te, è solo che ha scelto il giusto momento. Sei tu, con la tua snervante voglia di essere amata/o, che credi di amare. Sei tu. E il tempo, mai assopito, ad un certo punto ritorna e ti rifotte. Stop. Basta. Sveglia. E' finita. Ed è finita perché tu hai voluto che finisse. Però, per esempio, qualcuno si è mai posto il problema fondamentale dell'amore per sé stessi? Ecco, se uno ama sé stesso, il tempo non ti fotte. O almeno ti fotte di meno. Senza contare la consapevolezza che il tempo non esiste, che pure non dev'esser roba da scienziati. 

E che, se solo fossi arrivato un momento prima, non sarebbe stata neanche roba mia.

giovedì 6 dicembre 2012

Indovina chi (impiego di neuroni previsto: 2)

E. va in bagno per pochi minuti e mi lascia ad attenderla a gioco iniziato. Penso a quale domanda porle al suo ritorno e la tentazione di imbrogliare è forte. Non lo faccio. Non lo faccio e allora penso:

No, non mi piace l'ananas. Non mi piacciono i cani. Non sono una persona affidabile, né una di quelle persone sulle quali contare nel momento del bisogno. Sono costantemente assente, presa dalle mille ipotesi sul futuro che sistematicamente non si avvereranno. Non mi piacciono le arance. Odio l'odore degli agrumi tutti. Sopporto a stento le persone rassegnate, quelle più rassegnate di me, intendo. Ho una particolare attitudine per la solitudine e per l'alcolismo, senza contare le ripetute crisi di identità che spesso mi affliggono. Ho due blog, quattro o cinque nickname sparsi nel web. Soffro l'abbandono, lo soffro al punto che penso di esser stata abbandonata prima che mi abbandonino. Non sprizzo gioia da tutti i pori, no, sono discreta e silenziosa. Troppo, ma solo con chi conosco poco. Non amo in un uomo le mani magre, i denti larghi, la voce acuta. Non rispetto un orario che sia uno, e mi annoiano le persone puntuali. Adoro il sesso la mattina, il caffè tiepido, i complimenti sottintesi. Non mi piacciono le donne che seguono la moda, che ne fanno un comandamento, un'imposizione voluta. Ho un'intolleranza alimentare a qualche tipo di mollusco, ancora non ben identificato. Soffro il caldo, amo l'inverno. Il mio colore preferito è l'arancione. Quando avevo quattordici anni mio padre è morto causa malattia. Mi commuovo spesso, invento parole nuove. Adoro sfogliare il dizionario. Sono una ignorante in molti campi, compreso il mio. Mi piace far la doccia appena prima di dormire e confondere il mio odore con quello delle lenzuola pulite. Ho un rapporto pacifico con la morte, un po' meno con la vita. Amo le città di media grandezza, non troppo affollate, mediamente rumorose. Amo il francese, le cucine straniere ma non la cinese e nemmeno la giapponese. Mi piace il cinema coreano, o anni '60. Piango e rido insieme, almeno una volta al mese. Non mangio kiwi, metto solo smalto bordeaux, adoro le infradito. Sono costantemente in un periodo di riflessione, nel senso che rifletto assai. Mi piace scrivere, ma mi riesce male. Mi piace disegnare, ma mi riesce peggio. Ho una voglia immediatamente sotto il sopracciglio destro, un po' sfocata e al caffè. Una cicatrice sotto il mento. Porto un solo orecchino. E parlo sempre di me.

"Ha i baffi?"
La domanda improvvisa di E. mi ricorda che, in questo gioco di indovinare il personaggio - uno a caso, ritratto sulle caselle che ho davanti- non c'è il mio volto. E che non mi farebbe mai domande del genere, ecco. Però dovessi descrivermi, io sarei proprio così. Compresi i baffi. 
Abbasso le caselle giuste e corro a fare la ceretta, un'altra scusa per guardarmi in faccia e per guardare occhi negli occhi la realtà.

"E' Sam!"

Niente da fare, vinco sempre moi. 


giovedì 29 novembre 2012

OPS - le noie (impiego di neuroni previsto: 2,5)

Mi si perdonerà lo sproloquio, per nulla interessante e un po' noioso, ma ce l'avevo qui:

Poi mi pare di intuire che siamo un ammasso di deficienti. Giornalmente, eh, mica è un'illuminazione del momento. Mi siedo in un bar con l'amica di sempre -intelligente, carismatica, adorabile, una dei pochi esseri umani che non si può definire deficiente-, si siede accanto a noi un tale, L., trentadue-trentatré anni, proprietario del locale. Prima di sedersi con noi, parla. Cioè, mi spiego meglio: c'è una particolare applicazione per cellulari e/o simili immagino, che ti parla. Tu fai una domanda, o un'affermazione e una voce risponde. Ovvio che l'idea più gettonata sia quella di insultarla. Ovvio. Ed è ovvio -per una come me che ha un rapporto di dipendenza assoluta con la tecnologia ma che prova un amore più forte per lo scambio di idee ragionato, sensato o no, ma che ti faccia capire qualcosa di più, anche solo che siamo un ammasso di deficienti- che da un momento all'altro io mi aspettassi un cazzotto, uno schiaffo, un calcio in mezzo a, da parte della signorina che, al contrario, rispondeva: credo di non aver capito. Il database è scarso, o ricchissimo, ad ogni modo la parola tr*ia non aveva per lei alcun significato. Ho immaginato un bambino, di sei o sette anni che per caso sente una parola sconosciuta -un mondo nuovo, milioni di significati racchiusi in una intonazione e pochi grafemi- e si affretta a chiedere alla mamma "ma cosa significa?" Si informerà, assimilerà la parola e si troverà molti anni dopo a spiegarne il significato ad un altro bambino. La vocina nel telefono, si aggiorna. Cioè, quell'entità che pare avere pure un cervello, ma stupido, può, da un giorno all'altro, grazie ad un tuo particolare comando, imparare nuove cose. E allora immagino che, nel 2135, avrà imparato molto. E forse avranno trovato il modo di renderla visibile, la donnavoce. E, forse, qualcuno la farà entrare in casa, scambiando con lei convenevoli, come stai?, è brutto il tempo, eh?, per poi passare a "ma quanto sei bella, sembra ti abbiano disegnata" e "vorrei baciarti". Non so se la tecnologia sarà giunta a tanto, ma può darsi che facciano l'amore. E il giorno dopo chissà, forse non si sentiranno neanche più, come accade il più delle volte quando alla base di una conoscenza vi sono soltanto un ammasso di stupidi convenevoli. Va be', accade anche quando alla base c'è una conoscenza secolare, ma transeat. Non so, mi pare come se vi fosse un meccanismo inconscio, nelle menti umane, un meccanismo che fa sì che ci piaccia, al di fuori di ogni ragione plausibile, interagire con qualcuno che sia più stupido di noi, che non abbia gli stessi fili elettrici nel cervello, che non sappia articolare un discorso, renderlo efficace, denso di significato. Mi pare come si voglia, in un modo o nell'altro, dimostrare a sé stessi la propria superiorità. Oppure - e l'alternativa certamente non dà sollievo- si tratta di un tentativo di non sentirsi soli (immagino una donna ubriaca, sul finire della sua vita, sola su un divano a guardare un film con l'uomovoce). E se anche si trattasse soltanto di un modo diverso per ridere, divertirsi, cazzeggiare, mi deprime l'idea che ci serva questo. Ma una sana scivolata, un sederata per terra, di quelle che fanno il rimbombo, o una gaffe nel mezzo di un avvenimento importante, o, meglio ancora, una freddura acuta e intelligente, nel mezzo di un discorso semiserio? Questo è quello che a me fa ridere. Questo è quello che mi piace degli umani. Le loro debolezze, il loro continuo credersi altro da sé, l'ironia, quella sottile, quella che è perspicace e mai adeguata. Mi piace, poi, più che i bambini, la loro espressione - quel leggero inarcarsi delle sopracciglia, gli occhi rivolti in alto, la bocca un pochino aperta - mentre ti domandano "ma cos'è?" "cosa significa?" "ma perché?". C'è un universo, celato dietro quel momento. C'è il ricordo che quella spiegazione diventerà, c'è l'immaginazione attraverso la quale il bimbo afferrerà il concetto, c'è il processo attraverso cui quel concetto prenderà forma e suono. Mi fa paura l'idea che, per conoscere il perché di una cosa, quello stesso bambino non farà altro che digitare due lettere (son sempre due, ché la cronologia è un'assassina dell'intuizione, del fare, dell'immaginare, del ricercare) su di una tastiera. Che guarderà alle enciclopedie (sacre, sacre, sacre) come un reperto storico. L'odore della carta un odore mai registrato.

E che un giorno, forse, si troverà in un letto con la donnavoce fatta carne, a fare discorsi di un livello mai visto:
- sei bella -
-grazie-
-fa caldo-
-è estate-
-mi baci-
-ok-
-che fai nella vita-
-versione 4.3.1 di un database parlante, da poco scopo pure, eh-

OPS.

lunedì 26 novembre 2012

Affanfiori (impiego di neuroni previsto: 1)

La verità è che non faccio altro che mangiare, mangiare e mangiare. Non che lo faccia con disinvoltura, o senza sentirmi in colpa. Mi sento in colpa, ingrasso, e continuo a mangiare. Sto bene, sì, decisamente. Però sorge un problema, ultimamente: perché le canzoni, i film, i libri che ascolto, guardo e leggo non fanno altro che parlare di me? Dico io, pietà. Cioè, smettiamola un po' di mettere il dito nella piaga. Nel frattempo, quasi di risposta, mando a quel paese molte cose - sarà pure che è periodo di spostamenti e "problemi femminili", nonché periodo di compleanni, compreso il mio, il venticinquesimo, per l'esattezza -, e nel farlo, nel mandare a quel paese cose e/o persone, utilizzo un'espressione da me inventata (ebbene sì, l'ho inventata ioo!!), che mi fa illudere di non essere volgare e che mi fa pensare di non augurare del male a niente e nessuno, come una sorta di assoluzione implicita, senza peraltro aver commesso peccato:

-affanfiori alle canzoni tipo "ti è mai successo che.." Sì, mi è successo. E faccio di tutto per non ricordarlo. Quindi, ti prego, chiudi la bocca. Tappala. Canta altro, ché in tempi non sospetti eri pure bravino.
-affanfiori ai libri che raccontano di quella donna che pensa, pensa e pensa. Rimpiange. Si pente. Oppure si innamora follemente e alla fine se lo sposa pure. Ma affanfiori, sappi, Ragazzacheleggepersognare, che è proprio così: è solo un sogno. O un incubo, dipende dai punti di vista.
-affanfiori ai film, quelli che raccontano di quei personaggi complicati, problematici, che devono difendersi dalle sofferenze dell'amore e allora soffrono prima, mentre e dopo. Ma un sano personaggio taciturno, o allegro, spensierato, idiota pure, no?
-affanfiori ai rischi, a "se non ci provi non lo saprai mai", alle scommesse, alla paura dei rimpianti. Molto meglio, molto meglio i rimpianti che le sconfitte.
-affanfiori alle persone che riescono ad essere educate e formali pure con l'assassino del proprio fratello, che so. Sono le stesse che bevono solo acqua, che non si siedono mai se non a gambe accavallate, e che a letto son tutte schiappe. Tutte o quasi. Ehm. Ogni riferimento a cose o persone è puramente voluto.
- affanfiori agli aridi, di cuore, di tenerezza, di amore. Per colpa loro o di brutte esperienze, ma affanfiò pure a quelle. Ogni riferimento a cose o persone è proprio cercato, eh.
-affanfiori a quei libri che, invece, prendono proprio spunto dalla mia vita: ci saranno altre sfighe di cui parlare, no?
-affanfiori a quelli che scrivono libri e non sanno scrivere. Salvo considerare il fatto che ci sono molte star internazionali della musica che non azzeccano una nota che sia una. Ed in mezzo a loro c'è pure chi ha il suo talento, che non sarà l'intonazione, ma frutta fior di quattrini. E di sorrisi.
-affanfiori ai blog di scrittura (che so, quelli arancioni, malinconici, fatti di post monotematici e spremuti come le arance: se non riesci a scrivere, non farlo), o a quelli che ti fanno intravedere una personalità di cui ti innamori e disinnamori alla velocità della luce, ché quello che si scrive, tendenzialmente, è quello che manca, quello che non si è/ha.
-affanfiori ai mandarini, non ne sopporto l'odore, figuriamoci quanto è irritante quell'albero davanti casa pieno zeppo di palle arancio.
-affanfiori alle palle, ché se non le ho avute prima le ho avute poi ed è andato tutto comunque affanfiori.
-affanfiori ai contatori delle statistiche, ché se mi imparanoiavo prima, mò proprio ciaociao.
-affanfiori agli sms degli ex (che poi neanche ex sono, in realtà non sono mai stati nulla di concreto) improvvisi e pretestuosi. Lontano anni luce da me, sia chiaro.
-affanfiori alla nostalgia che ho di altre persone, che pure deve passare.
-affanfiori a tutto ciò che è passato.
-affanfiori alla passata.
-affanfiori a chi non parla mai in dialetto, n' sann' parla'.
-affanfiori al sesso, non tutto, eh. Gran parte.
-affanfiori a Roma, alle luci accese, al traffico alle 5 del mattino.
-affanfiori alle sue frasi. Che non dimenticherò mai.
-affanfiori alle facce belle. E pure a quelle brutte.
-affanfiori a tutto quello che adesso mi sfugge.
-affanfiori a te che fuggi.
-affanfiori a quel giorno di Settembre, al cioccolatino al caffé che mi regalò, alle mani che guardava (più belle delle sue io non le ho mai viste), al tipo che parlava al cellulare e ai suoi occhi che pure commentammo. A quel bacio che diceva di non sapere trattenere. A quel bacio che non sapevo trattenere. Al mal di testa che il pensiero di lui mi fa venire, alle parole strozzate in gola, al suo fottutissimo odore, al suo modo di guardarmi, alla sua voce, agli insulti che abbiamo evitato, alle attese inutili. Schifose. Affanfiori alle aspettative catastrofiche che ho perseguito e che non mi hanno deluso neanche un po'. Ma va. Ma dai. Non ci smentiamo mai, eh, non sia mai. 
Affanfiori a te, affanfiori a me, affanfiori a ioprendountè, affanfiori a quantoseibellate, affanfiori pure a mammamiaquantomimanchite.

Eppure sto bene, eh, mica mi lamento. Però vi prego, mondo, cantanti e cantautori tutti, registi e attori, scrittori e scribacchini, odori e puzze qualunque, voci ascoltate per caso, titoli di opere teatrali, manifesti per la strada, capolinea degli autobus, venditori ambulanti, venti di ogni provenienza ed impeto, supermercati, asfalto, muri e pareti tutte: la piantate o no di parlare di me, eh?

Però sto bene, eh, anche senza di te.

venerdì 16 novembre 2012

Detto questo (impiego di neuroni previsto: 2)

Assioma n.1 : Le delusioni sono direttamente proporzionali a quanto sei sfigato, punto.

Sfigato non nel senso di sfortunato, proprio quei soggetti privi di ogni attrattiva, repellenti insomma, ecco. Quelli sono il trionfo della delusione d'amore, il ritratto, la prova lampante che l'amore fa schifo. Sì, perché è lui a far schifo, non lo sfigato. Lo sfigato è sfigato, e non è colpa sua. Invece l'amore ci si impegna, si applica, ci mette tutto sé stesso, mette la veste del piacere, del sensazionale, del meraviglioso, e appena ti volti ti pugnala. L'amore è un criminale, insomma. E tutti - lo sfigato, miss italia (che è più sfigata dello sfigato, s'intenda), quell'attore in tv, lo scrittore sociopatico, il moralista di 'sta penna, il discotecaro per eccellenza, il viaggiatore sotuttoio-, tutti, proprio tutti, un ammasso di masochisti deficienti. Detto questo, e quindi chiarito il mio punto di vista sull'argomento, volto pagina. Cioè, aspetta, non che dia all'argomento poca importanza, eh. E' essenziale, vitale, così perfettamente indispensabile da sembrare disgustoso, a volte. Ma se ne può fare a meno, così come si può fare a meno di un miliardo e mezzo di cose nella vita: non so, il profumo ad esempio. Sì, il profumo. Basta del sapone, del deodorante, e l'odore della propria pelle è il miglior profumo che ci possa essere. Il pepe. Che aggiungerà pure quel pizzichetto di, ma la pietanza sarà buona lo stesso, garantito da me. Il correttore alle scuole elementari, quando dovevi cancellare l'errore e la linea d'inchiostro (terapeutica, peraltro) era esteticamente ripugnante per il tuo cuoricino ancora così pulito. Ma no, se ne poteva fare a meno. Il balsamo nei capelli, la lancetta dei secondi, lo smalto trasparente, le pagine bianche ad inizio e fine libro, l'ascensore nei palazzi a tre piani. Se ne può fare a meno. Detto questo, espresso un concetto (poco chiaro, sì, lo ammetto) su questo strano animale-criminale, volto pagina. Non che creda che l'amore faccia solo male, non che sia completamente disillusa, no. Ci ricasco sempre anch'io, pur consapevole di tutte 'ste robette qua. Sono masochista e deficiente anch'io, mica escludo nessuno. Esseri umani tutti, compresi i bambini, anche se loro son giustificati, ché son piccoli e ancora non possono capire. Non possono capire che ci saranno momenti nella vita in cui continueranno a non capire nulla, pur avendo raggiunto la maggiore età da un pezzo, perché qualcosa di terribilmente travolgente, assolutamente ipnotico, ha rapito il loro raziocinio. Ma non per sempre, bambini, non per sempre. Tornerà il lume della ragione, e la realtà presto farà capolino. Detto questo, e quindi chiarito il mio punto di vista sulle faccende d'amore degli umani tutti, volto pagina. E no. E' proprio questo il punto. La pagina si volta, il già letto diventa passato e il presente ricomincia a far da complice al criminale. Se c'è una verità, è che non si vive senza. E se c'è una galera è vivere senza.

Assioma n.2 : Lo scrivere d'amore è direttamente proporzionale al bisogno che ne avverti. Eh già.

lunedì 12 novembre 2012

Moralità degli umani (cap. I-VI) (impiego di neuroni previsto: 2)

Pensava, mentre sorseggiava il caffè:

Come inguaiare il venticinquesimo anno della propria vita in poche semplici mosse.
Adelaide termina una storia quinquennale con un ragazzo conosciuto al liceo: spero tu sia felice, ci sentiremo prima o poi e blablabla e tutte quelle cose là. Dopo otto mesi il tipo è diventato MARITO. Sì, marito di un'altra. Adelaide si rimbocca le maniche, dice a sé stessa che no, non è il caso di pensare al passato, che bisogna ricominciare, che quel che è stato è stato. Nel bel mezzo della storia con il tipo sopracitato, Adelaide ha conosciuto un uomo, Fabio: Fabio è tutto quello che lei immagina soltanto, che non ha mai visto, né toccato. E' fidanzata, e al capitolo II del manuale Moralità degli umani, anche detto Ipocrisia degli umani,c'è scritto a chiare lettere che, se hai un fidanzato, non esistono altri uomini sulla faccia della terra. Non esistono, senza vie di mezzo. Un mese prima di lasciare il sopracitato Maritodiun'altra, Adelaide incontra Fabio, in una serata d'estate qualunque, nella città più bella del mondo. Errore compiuto, Adelaide si fa un esame di coscienza e legge, al capitolo III di Moralità degli umani, che il pentimento è già una parziale assoluzione: allora quel bacio al binario 14, dato a quello sconosciuto che le sembrava così conosciuto, è già perdonato. I sensi di colpa si trasformano, diventano bugie da dire a Fabio, ché a casa (o quasi) c'è chi la aspetta: quello che poi sarebbe diventato Maritodiun'altra, per intenderci. Un mese dopo la vita cambia, e Adelaide cambia disposizione dei mobili: è una nuova vita, è una nuova casa. Passano due mesi e mezzo, Adelaide cerca Fabio, non lo trova, poi sì, lo trova. A Novembre si rivedono nella stessa città del loro primo incontro: e si rivedranno altre volte -poche, a dir la verità- fino a Gennaio. Le aspettative deludono sempre, in un modo o nell'altro. Le piaceva fare sesso con lui, le piaceva la sua voce, le infondeva tranquillità. Fine. Stop. Tu a casa tua, io a casa mia, con sempre più sporadici contatti online, ma con la voglia di rivedersi, ché in quanto a sesso i due andavano d'accordo. E se ne è fatto troppo poco. A Natale Adelaide incontra Stefano, si vedono, si piacciono, passano diverse serate insieme, alcune lunghissime, densissime, piene zeppe di chiacchiere. Perché al capitolo IV di Moralità degli umani c'è un paragrafo che spiega che, per quieto vivere e per lasciare intatta quella parte di noi che si crede dignità, bisogna ingioiellare i momenti di frasi e carezze, bisogna farlo. E poi guardarsi con quegli occhi che Adelaide ancora non dimentica. Storia chiusa con un sms. Ci pensa ancora con l'amaro in bocca Adelaide, ma si rimbocca le maniche, in fondo ne ha passate di peggiori. E che peggiori siano! Conosce l'uomodiun'altra, Adelaide, lo conosce da molto tempo: è attraente in un modo che non si può raccontare, è colto, è quello che Adelaide sogna di diventare. La corteggia senza tregua, la invita a cena innumerevoli volte, ricevendo in risposta sempre un no. Adelaide ha paura. Sa che perderà la testa. E la perde, consapevole, senza possibilità di ritorno. Escono insieme, si sentono in continuazione, lui è presenza costante, lei un po' meno perché sa che lui, in realtà, è di un'altra. E al capitolo V di Moralità degli umani c'è scritto, tra le altre cose, che se un uomo è già di un'altra non verrà mai da te. Che non sarà mai tuo, insomma. E che, per rispetto della sua donna, non dovresti neanche sfiorarlo, l'uomodiun'altra. Le cose cambiano, si modificano, tornano i sorrisi, Adelaide non piange più. E ora? E' finita. 

Eh già, perché al capitolo ultimo di Moralità degli umani c'è scritto che tutto quello che è contenuto nel libro è confutabile, non ha niente a che vedere con la scienza, niente è dimostrato. Insomma, sono solo un ammasso di chiacchiere: rispettose, oneste, dignitose e blablabla. Ma la vita non è onesta, non rispetta, non ha un briciolo di dignità e, soprattutto, la sua morte è la Moralità.

Che poi, a dirla tutta, a rovinarsela 'sta vita, Adelaide, ce la fa benissimo da sé. E si rimbocca le maniche ancora, mentre manda giù l'ultimo goccio di caffè.

sabato 10 novembre 2012

venerdì 26 ottobre 2012

Banan(/l)e e chissà - Adelaide si specchia in una pozza e non sa (impiego di neuroni previsto: 1,5)

Sfoglio il volantino delle offerte: pasta al 20% in meno, tonno che sembra un furto, banane plastificate, lucide e invitanti che non comprerò mai. Decido che non andrò al supermercato, e che passerò i prossimi tre giorni sui libri. Decido che è il caso che mi rilassi, acquisto sali da bagno, incenso e tè, avvio la mia playlist del giorno e so che da questo momento, e per i prossimi cinquanta minuti, tutto il mondo è in questa stanza. E sarebbe bello, sì, sarebbe bello, che al mondo non vi fosse altro che vapore, odore di mandorla, acqua e me. O forse no. Forse -e dico forse ma ne sono convinta- Adelaide, di tutto il resto, non potrebbe proprio fare a meno. Delle persone, quelle ridicole, quelle che le fanno pensare che la ragione almeno la accompagna, quelle che "c'è sempre chi sta peggio". Adelaide non potrebbe fare a meno delle persone belle, quelle che si contano su una sola mano, o al massimo due: ad Adelaide sembra di vedere le loro facce sorridenti sui polpastrelli, facce che le parlano quando ne sente il bisogno, e anche quando non ne sente: presenze costanti, sulle dita e nel cuore. Già, perché poi Adelaide è una delle persone più banali e patetiche che esistano: è una che si commuove spesso, che piange a dirotto pure, che si consola con la cioccolata, che ascolta anche canzoni d'amore, vede film struggenti, e fa tutte quelle cose consuete e banali che si fanno alla sua età. E anche dopo. Anche questo confondersi/mi, tra soggetti e pronomi personali alternati, come se riuscisse a vedersi e a non riconoscersi, come si credesse un'altra da sé, come si immaginasse personaggio inventato di un libro dalla copertina bordeaux. E lo trova divertente: nascondersi dietro la giustificazione di non essere la responsabile dei suoi gesti, ché tanto è quell'altra lì, quella col neo tra il naso e la bocca e la liquirizia a farle da carburante, quella che ha tutte le colpe del mondo. Quella che proprio ora ha deciso di aprire il frigo e di mangiare del tiramisù, quella che sta battendo sulla tastiera parole incomprensibili e sconnesse, è lei, è quell'altra lì, che fa tutto questo. Non cerca più nulla, non vuole più nulla. Sorride e si carezza i capelli. Pensa che per troppo tempo ha cercato motivazioni plausibili al comportamento dell'Uomodiun'altra, che non ne vuole trovare più. Che lo vorrebbe ora qui, a stringerla, a mangiare tiramisù con lei, a convincerla che non c'è nulla da inventare al di fuori di lei. Lei che è intatta, così frivola e sciocca, così fragile. Ma Adelaide non lo ammetterebbe mai. Guarda oltre la finestra: Roma si prepara alla pioggia ma mai cielo le è sembrato più limpido, trasparente e sincero di oggi. Piove e qualcosa di buono porterà la pioggia, sia pure solo l'illusione di guardarsi in una pozza e, finalmente, riconoscersi.

Già, perché poi Adelaide è una delle persone più banali che esistano: non vive senza amore, lei che non vive senza amare. E senza liquirizia, eh, che sul volantino delle offerte, stamattina, è al 50% di sconto. (mette la giacca, esce di casa, e si catapulta al supermercato. Nel tragitto del ritorno a casa finisce tutta la liquirizia acquistata. Allora scrive, scrive proprio 'sta roba qui).



mercoledì 12 settembre 2012

Otto dollari (impiego di neuroni previsto: 2)

Il mio zio americano -appena conosciuto, mai visto prima di qualche giorno fa se non in foto- mi dice, tra le altre cose, che a New York, per attraversare un ponte, un solo ponte, paga otto dollari. Penso inevitabilmente a quanto siano diverse le culture, le società, le abitudini. Penso che in Italia paghi -e molto- per un tratto di autostrada che nel più delle volte è proverbiale, segno distintivo di una nazione che va a rotoli. Penso che in Italia sarebbero molte le cose da correggere, ma che con queste, inevitabilmente, si correggerebbe un'identità. E poi penso quant'è buffo che in questa vita qua tutto -ma proprio tutto- abbia un prezzo. Attraversare un ponte che magari ti condurrebbe alla felicità -trovata in un giorno qualunque, dentro un caffè che prima di allora non sapevi neanche che esistesse, alla fine del ponte, nell'attraversare quel ponte... - costa otto dollari. Otto, che se fossero 120 non cambierebbe nulla. La sostanza è che non si ha mai nulla per nulla, e che per avere quel tanto ambito momento di serenità, qualcosa prima o poi darai in cambio. Alla vita, che tanto gentilmente ti ha donato un momento su mille. Uno solo, che generosità. Le darai lacrime, sgomento, rassegnazione, o forse solo un attimo interminabile di apatia. Ma pagherai. Allora accade che d'improvviso capisco che baciare il mio migliore amico non è stata una buona idea, che vederci in un modo nuovo, come mai prima di ora ci eravamo visti, beh, non è stata una buona idea. E' che al passaggio nessuno gridava "un fiorino", eccetto la mia coscienza. Facile è stato evitare di sentirla, solita stupida illusa. Ché pensa di saper tutto lei, e invece appena le affidi qualcosa sai che sbaglierà. Si sovrappone, ogni volta, alle tue necessità. Un bacio che è costato molto più di otto dollari, un bacio che più che un bacio è parso un addio. Addio a te così come sei, addio a noi così come siamo. Otto dollari è costato dirsi che è stato uno sbaglio, che sommati agli otto del bacio siam già a sedici. Il mio zio americano, tra le altre cose, sorride spesso. E' felice -mi dico- di essere tornato in Italy dopo quaranta anni, sorpreso di ritrovare gli stessi luoghi ma così cambiati. Sorride ed io mi sento come a casa mia, lì, nel suo sorriso. Senza attraversare nessun ponte, o nessun oceano. Io che sono sempre ferma e che di dollari, a dirla tutta, non ne ho mai pagato neanche uno. Erano euro. O forse era solo vita. Attimi. Rapporti. Promesse. Disfatte. Tutte pagate lì, al passaggio tra quello che è giusto e quello che volevo. Le cose mutano, mi attraversano, cambiano direzione. Improvvisamente. Eppure, non so perché, sento di non aver mai -dico mai- attraversato quel ponte.

Adelaide saluta lo zio americano e negli occhi prova uno strano senso di nostalgia verso cose che mai ha potuto vedere, che mai ha potuto conoscere. Si tocca ancora il neo che ha sulle labbra, ripassa storia dell'arte in una mattinata qualunque. Sbuffa appena, china la testa e sorride.
Arriverà, si dice Adelaide, un ponte per cui valga la pena svuotare il portafoglio. Arriverà.




sabato 21 luglio 2012

"Sicuro" è che non è sicuro (impiego di neuroni previsto: 1,5)

Un amico mi fa notare che dico sempre "non lo so", che insolente. Adelaide non lo sa, punto. Adelaide non lo sa e questo è tutto. Ché uno non dovrebbe scegliere mai, credo. E invece stamattina Adelaide ha scelto, ha deciso.
Esco di casa alle 10:30, decisa ad andare in agenzia e comprare i biglietti: andata e ritorno, destinazione Puglia. Poi, mentre attraverso col verde per me sulle strisce pedonali, la mia gonna nuova -color mattone- si alza, così, d'improvviso. Come quei giocolieri che si fermano ai semafori e si esibiscono, la mia gonna esigeva un momento di protagonismo assoluto, senza neanche chiedere elemosina. Così la abbasso, velocemente, e continuo a camminare. Il rossore in volto è evidente, e si trasformerà dopo trenta secondi in una goffa risata. Acquisto degli anelli di stoffa, fiori neri e marroni, abbinati agli orecchini acquistati ad un euro e cinquanta in una bancarella in Via De Lollis, e mi sembra l'unica mia azione di cui sono veramente sicura. Così la giornata comincia, nell'aria afosa di una Roma sperduta, in Luglio, quando non le pare vero di veder così poche auto. In compenso i tram si accavallano, pieni di turisti (che non è vero che son cinesi, quelli ci vivono, a Roma). Ed io cammino, con la fretta di sfuggire al sole bollente, coi capelli al vento e la fronte umida, con la mia gonna mattone e i miei fiori di lillà. La signorina dell'agenzia -grandissimissima brava ragazza- mi chiede 120 euro per un viaggio della speranza: mi ricorda i travagli subiti i primi anni di università, rinchiusa in un vagone che somigliava molto a quello di un treno-merci. Dovrebbe esser breve il viaggio. E confortevole. E invece non lo sarà, mi dico, la nube nera mi perseguiterà, non riuscirò neanche a prendere un po' di sole. Che vergogna, quest'anno come l'anno scorso, in costume! Ma mangio. E non vado più a correre, in estate ci si riposa. Ho ricominciato a mangiare regolarmente da dieci giorni, più o meno. Sono già ingrassata. La ciccia è bella -mi dico- quantomeno simpatica, ecco.
I biglietti -quattro, parte con me un mio amico- li ho già persi, non ricordo dove diavolo li ho sistemati pensando "qui saranno al sicuro". "Sicuro" non è niente, e questa ne è l'ennesima conferma. La valigia rimarrà vuota fino a Lunedì, nonostante i buoni propositi di prepararla prima del tempo.
E così Adelaide va in Puglia senza aver accettato l'invito del musicista del XXI secolo. Che idiota, Adelaide, che idiota. E si incammina così, come nell'inizio di un film, con la sua gonna mattone e i suoi fiori di lillà.

E questo è tutto quello che sa.

venerdì 29 giugno 2012

Finirà mai?

Cioè, ci fa più paura essere soli che non essere. O morire. E' spaventoso tutto ciò:



A me fa paura la paura. E poi le vecchie coi bigodini e i denti rotti. E le persone con troppa autostima. Non mi domando se esiste Dio, né da dove veniamo, cosa siamo, dove andiamo, se finirà il mondo, se saremo eterni. Vivo, questo è quanto. Poi mi fa paura il sentimento a senso unico, i serpenti, la malattia. Non di molto altro, a dir la verità. Ma mi fa molta paura chi si preoccupa costantemente della solitudine, ecco. E' come se dichiarasse di essere la persona più sola al mondo e questo è di una tristezza devastante. Nessuno dovrebbe mai sentirsi solo, è ingiusto. Ed è un insulto alla vita.


Adelaide, in cuor suo, ha solo paura di aver paura. Ed avrebbe domandato, sottovoce e con garbo -toccandosi il labbro, come fa sempre quando qualcosa la incuriosisce-:

Finirà mai, la paura?
Ma non è che ci pensi granché, eh.

domenica 10 giugno 2012

Non è bello ciò che piace (impiego di neuroni previsto: 0,5)



Claudio è bianchiccio. Cioè, ha la pelle bianco-latte per intenderci. D’estate e di inverno, senza alcuna differenza di tonalità. Lo conobbi alla presentazione di un romanzo di una tizia (analfabeta, se ne parlerà più in là) in un caffè letterario. Sì, roba da snob, lo so. Ma a me piace. A me piacciono un sacco di cose in realtà (vedi il mio profilo, cliccando sul mio nome, in alto a sinistra). Scontrammo inavvertitamente le nostre mani nel prendere sullo stesso scaffale lo stesso libro. Banale, so anche questo. Eravamo gli unici due a non sentire le chiacchiere della tizia-scrittrice-moccina di cui sopra, presi dalla miriade di libri che lì si potevano sfogliare, leggere, gustare fino alla mezzanotte. E mezzanotte fu, leggendo insieme lo stesso libro, su due copie diverse, ad alta voce ed una pagina per uno. Claudio ha la R moscia, alla francese, che più che moscia sembra gay. Ha una voce calda, di quelle che se lo vedessi –bianco com’è, pure un po’ freddo nei modi- non ti aspetteresti mai. Due mesi dopo la presentazione del libro mi chiese di uscire, destinazione serata lettura. Beh, lo speaker era lui. Era lui. Cioè, era lui (il "cioè" mette in evidenza la mia incredulità).
Ecco. Cioè (il "cioè" ci vuole perché evidenzia il bisogno di una spiegazione…e la spiegazione), quella sera era un’altra persona: il sex-symbol che c’è in lui improvvisamente si manifestava, riuscivo a vederlo fighissimo, abbronzatissimo, ganzissimo. Perché lo stereotipo del sex-symbol è questo, no? Mi correggano gli esperti. Un po’ come il concetto che Gesù era bello e slanciato, magro, occhi azzurri, faccia da bravo ragazzo. E diceva, tra le altre cose impeccabili, che "siamo tutti uguali". Beh, insomma, quella sera io e Claudio siamo finiti a letto. A casa sua c’era la liquirizia. E nello stereo la musica adatta. E poi lesse per me. E forse ero anche ubriaca, va be’.
Insomma, cinque anni con un tipo esteticamente perfetto (Daniel, se ne parlerà pure di questo più in là) so di non essermeli meritati, si intenda. Ma il mio ragazzo era bello. Non scriveva, non leggeva, non ascoltava la mia musica, non conosceva la letteratura. Però era bello. Ntz.
No, questo per dire che a me il detto che "non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace" m’è sempre sembrato pari a "non sto dormendo, ho solo chiuso gli occhi un momento". Ma chi vuoi prendere per gli zebedei? E’ bello ciò che è bello, punto. Quello che ti piace "ti piace", è un altro discorso. E non c’è motivo per definire qualcosa che ti piace "bello". Claudio era ed è bianchiccio, non brutto, ma figo per niente.


Ma è stata la notte di sesso e letteratura più BELLA della mia vita. Tiè.



mercoledì 16 maggio 2012

Enchantée

E io mica lo so se aprire un altro blog è una buona idea. Se i buoni propositi di Adelaide andranno un'altra volta a farsi friggere, o se è la volta buona che imparo ad essere costante. Adelaide ha un cerchietto tra i capelli, è vero. Adora la liquirizia, una nuvola nera la perseguita. Non so se sia sfiga e, nel caso lo fosse, Adelaide se ne sbatte. Ogni volta che qualcosa va storto, pensa che le piacerebbe un sacco fare del sesso, alla faccia di. Adora il pizzo, la pizza ai funghi, i funghi, le piogge estive, di meno l'estate. A casa, riposte in una vetrinetta, ha una collezione di macchine fotografiche datate. Che non sa usare. Sogna in grande, vive in piccolo. Fuma, ahimè, fuma. Ha ciccia quanto basta a non piacersi affatto, ma se ne sbatte. Ama la letteratura, i pois, le lusinghe, il farro, il vino buono. Ama raccontare il suo passato. Ama il buon cinema, la letteratura, la metaletteratura. Ha un neo piccolino sul labbro, matita nera agli occhi, è bionda. Adelaide ha ventiquattro anni e un pezzettino, e due blog. Abita a Roma, al terzo piano della scala B di un palazzo di periferia.

Tutto quello che è stato prima, è stato. Da oggi quel che è stato male non fa più male, no.